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Ovvero perché non dovremmo avere fretta di far smettere i bambini di contare con le mani
C’è un’idea dura a morire a scuola: contare con le dita sarebbe un’abitudine da piccoli, da superare in fretta. Eppure le ricerche dicono tutt’altro!
Uno studio del 2015 condotto da Berteletti e Booth ha mostrato che, nei bambini tra gli 8 e i 13 anni, l’area del cervello legata alla percezione delle dita si attiva mentre risolvono problemi complessi di sottrazione — anche se non usano fisicamente le mani. È come se il cervello continuasse a “sentire” le dita mentre pensa. Questo fenomeno si chiama embodied cognition, cioè “conoscenza incorporata”: il corpo partecipa ai processi cognitivi, non è solo un contenitore.
Anche altri studi vanno nella stessa direzione. Uno in particolare (Penner-Wilger et al., 2009) ha osservato che i bambini che in prima usano spesso le dita per contare, ottengono risultati migliori nei test matematici l’anno successivo. Usare le mani per contare, insomma, non è un ostacolo, ma un ponte verso una comprensione più solida dei numeri.
Nonostante queste evidenze scientifiche ancora oggi molti insegnanti tendono a far passare il concetto che utilizzare le dita della mano per contare è un aspetto infantile, da superare. Per decenni infatti i bambini sono stati spinti dalla letteratura ad evitare di usare le dita per la matematica.
In realtà, ogni bambino ha bisogno di strumenti per costruire il proprio modo di pensare. Le dita sono uno di questi strumenti: accessibili, sempre a portata di mano, e soprattutto efficaci. Verrà il momento in cui non serviranno più, ma spingere i bambini ad abbandonarle troppo presto rischia di togliere loro un appoggio importante.
Il progetto PerContare ha dato vita a due testi pensati per la prima e la seconda classe della scuola primaria, che mettono al centro l’uso delle dita, delle mani e di oggetti concreti per costruire il pensiero matematico:
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